Sei anni e otto mesi di reclusione. Questa, dopo il primo grado del processo “Radici”, la condanna che pende sulla testa del 53enne Alessandro Di Maina, residente a Cesenatico e ritenuto responsabile per l’estorsione in concorso ai danni di Emanuele Pirani, il proprietario di “Dolce Industria” Cervia che, secondo l’accusa, a fine 2018, fu costretto a cedere l’azienda sotto le “pressioni” di Francesco Patamia (condannato a sua volta a 11 anni e 2 mesi).
E’ la prima volta che Cesenatico viene coinvolta in un processo legato alla malavita organizzata ma, in attesa dell’appello, sono tante le domande che aleggiano su questa vicenda complessa che, come tutte le vertenze giudiziarie, presenta circostanze lampanti ma anche qualche zona d’ombra.
L’intervista ad Alessandro Di Maina non intende riscrivere una narrazione processuale né mettere in discussione il prezioso lavoro degli inquirenti, ma vuole soltanto dare la parola ad un cittadino di Cesenatico convinto di essere al centro di un clamoroso abbaglio giudiziario.
Di Maina non è nato nelle piane di Gioia Tauro, ma nella vicina Bologna, non ha un cognome “colluso” con le ‘ndrine della Locride e – al di là di una coloratissima anedottistica che ormai, suo malgrado, lo circonda – in questi anni ha continuato a viaggiare, a vedere gente e a lavorare a Cesenatico come “uno qualunque”.
Perché allora questa intervista? Perché “il dubbio è scomodo – diceva qualcuno – ma la certezza è ridicola”. E allora, anche stavolta scegliamo la strada più difficile, quella dell’ascolto.
Alessandro Di Maina, come e quando ha conosciuto i Patamia?
“Dagli ultimi mesi del 2017 io collaboravo con un consorzio romano, uno dei principali player che opera a livello nazionale nell’outsourcing alberghiero. Questo consorzio aveva appena preso in gestione a Cesenatico gli hotel King e Graziana, entrambi in viale De Amicis. Dopo qualche mese di lavoro, mi viene presentato il nuovo direttore generale del consorzio, che è proprio Francesco Patamia. Scoprirò poi che quella nomina nasceva dal fatto che Patamia aveva ceduto in gestione al titolare del Consorzio un suo ristorare di Milano, oggi definitivamente chiuso”.
Francesco Patamia
Che tipo di rapporti c’erano tra lei e Francesco Patamia?
“Inizialmente direi inesistenti. Poi, un sabato di febbraio, ricevo una telefonata dallo stesso Francesco Patamia che mi dice: ‘Sto venendo giù a Cesenatico con la mia compagna, ti va di pranzare assieme che ho una proposta di lavoro per te?’. In quel momento stavo cercando un’occupazione più remunerativa perché ero reduce da un divorzio devastante che mi era costato quasi tutto ciò che avevo, oltre ad una denuncia per mancato pagamento degli alimenti da cui poi sono stato assolto. Quindi, non lo nego, ascoltai quella proposta con interesse…”.
Che genere di proposta?
“Francesco mi spiegò che, con un fondo da un milione di euro messo a disposizione da un anziano milanese (Giorgio Caglio, oggi 85 anni ndr), voleva costituire una nuova Spa capitalizzata che avrebbe dovuto occuparsi della gestione o della creazione ex novo di alcune attività sul territorio romagnolo. E poiché io, vivendo a Cesenatico, conoscevo questa realtà e avevo una certa esperienza nel ramo outsorcing, mi chiese di fare il direttore generale della nuova Spa”.
Non si insospettì mai del fatto che questa offerta di lavoro provenisse da una persona che portava il cognome dei Patamia?
“Guardi, a quel tempo feci quello che avrebbero fatto tutti, ovvero scrissi quel nome su Google e pigiai ‘cerca’. Ma eravamo nel 2018 e, sui Patamia, ancora non c’era alcuna narrativa criminale. Sicuramente il loro nome non era ancora coinvolto in questioni di camorra o ndrangheta e il fatto che fossero di origini calabresi mi sembrò un dettaglio obiettivamente un po’ deboluccio per ritenerli degli affiliati ad una cosca mafiosa”.
Dunque accettò?
“In realtà presi tempo, ma poi venni convocato a Milano per una nuova riunione. Attorno al tavolo, oltre al commercialista, c’erano Francesco Patamia, il padre Rocco, che gestisce da anni un bar tabacchi a Bologna ed il finanziatore del gruppo Giorgio Caglio, un ottantenne di Milano che per questa operazione – mi dissero – avrebbe messo un milione di euro, anche se poi scoprirò successivamente dal giudice per le indagini preliminari che i milioni, alla fine, saranno quattro”.
A cosa doveva servire, in concreto, quel milione?
“A coprire le garanzie bancarie per l’acquisto di varie attività sulla costa romagnola”.
Quindi non ebbe mai dubbi sulla legittimità di quell’operazione?
“E perché mai avrei dovuto averli? Mi sembrava un lavoro come un altro e, quando, per un eccesso di zelo, chiesi al loro commercialista di avere qualche documento che certificasse la totale trasparenza dell’operazione, questo mi inviò il contratto regolarmente depositato tra la Spa (la F.P. Group, ndr) e lo stesso Giorgio Caglio che stabiliva che, a fronte di quell’investimento, quest’ultimo avrebbe percepito un guadagno annuo netto del 4,5%. A quel punto risposi sì e, nel marzo del 2018, iniziai la mia attività”.
In cosa consisteva esattamente il piano di investimento sulla città di Cesenatico?
“Mi orientai subito sul settore della ristorazione perché Rocco Patamia aveva fatto tanti anni il cuoco sulle navi da crociera e il figlio Francesco aveva gestito, a suo dire con grandi soddisfazioni economiche, l’osteria Al Pontile di Milano. Dunque, pensai, partiamo da lì, anche se il progetto, profilato sulle abitudini dei turisti, prevedeva una sorta di ‘holding della vacanza’ e quindi anche l’eventuale acquisizione di un albergo, di una spiaggia e di un bar-gelateria”.
Quale fu la prima acquisizione del gruppo?
“La pasticceria caffetteria ‘Dolce Salato’ di piazza Comandini”.
Perché proprio quell’attività?
“Perché abitavo dietro a quel locale e lo vedevo sempre pieno. Per altro sapevo che il proprietario, Morris Giovanardi, stava attraversando un periodo di difficoltà economiche per via del fallimento di un laboratorio di biscotti a Cattolica e quindi aveva la necessità di vendere. A quel punto sottoposi l’affare a Francesco Patamia perché ero convinto che quel locale, se gestito in maniera intelligente, potesse garantire un utile netto tra i 90 ed i 120mila euro l’anno. Una proiezione che, in effetti, si rivelerà corretta ed è la ragione per cui, negli anni a venire, decisi di acquistarlo personalmente”.
Come si concretizzò dunque quella vendita?
“In maniera molto semplice: Francesco e Rocco Patamia vennero a Cesenatico, incontrarono Giovanardi e perfezionarono l’atto di vendita che prevedeva un anticipo in contanti e pagamenti cambializzati di vari importi spalmati nel tempo. Ci tengo a precisare che partecipai a quella vendita ma senza avere alcuna voce in capitolo, nel senso che prezzi e condizioni di pagamento li decisero loro, non certo io. In ogni caso – e lo dico per chi a quei tempi parlò di ‘invasione dei calabresi in città’ – fu quella l’unica attività acquistata dai Patamia a Cesenatico. Tutte le altre, infatti, furono prese in affitto”.
Quali furono le altre attività prese in gestione nella nostra città?
“Dopo l’operazione ‘Dolce Salato’, Patamia parlò con il gestore dell’hotel King che era anche il proprietario dei muri del ristorante al fianco di Cioccolati Italiani. Ebbene, l’operazione si chiuse con un accordo di 36,5mila euro di affitto all’anno, una cifra che, da consulente del gruppo, ritenni accettabile visto che, vi ricordo, la società aveva in cassa, almeno sulla carta, un milione di euro per le varie fideiussioni bancarie. In ogni caso, l’accordo si perfezionò e, in quel locale, nacque il ristorante Al Trinchetto”.
Quel locale, però, non decollerà mai…
“Vero, andò male perché, con il senno di poi, la gestione fu completamente sbagliata. Francesco Patamia era convinto che il modello di ristorazione che aveva funzionato a Milano potesse avere successo anche a Cesenatico, ma i fatti dimostrarono, molto presto, il contrario. L’idea infatti di mettere una barca refrigerata piena di pesce all’esterno del locale risultò un po’ troppo ambiziosa rispetto ai modelli più sobri di Cesenatico e, infatti, tutte le sere, quel pesce lo mangiavamo noi e i dipendenti, altrimenti sarebbe andato a male. E così, un po’ perché i nuovi gestori sul territorio erano poco conosciuti e un po’ perché la posizione di quel locale è, da sempre, complicata, il Trinchetto si rivelò un errore”.
L’incendio all’ex Bar dei Pini
Ma gli affari della Francesco Patamia Group non si esaurirono lì…
“Dopo l’incendio del chiosco che oggi ospita L’Approdo, si aprì la possibilità di prendere in gestione, con la formula dell’affitto, anche l’ex bar dei Pini. Pensai subito che fosse un’ottima idea perché avrebbe potuto anche essere funzionale al Dolce Salato che, come noto, non aveva una pedana esterna. Le richieste della proprietà mi sembrarono eque, attorno ai 30mila euro all’anno, e dunque consigliai al gruppo di perfezionare anche quell’operazione. Iniziò così, nell’estate del 2018, l’attività del Chioschetto”.
In quella stessa estate accade il “fattaccio”, ovvero la minaccia all’incaricato di Hera che voleva multarvi per la gestione non conforme dei rifiuti: cosa ricorda di quell’episodio?
“Cominciamo col dire che quell’offesa non è stata pronunciata da me perché io, al momento dell’episodio incriminato, non ero neppure presente. Fui chiamato, come avveniva ogni qual volta ci fosse una grana da risolvere, in un secondo momento ma, quando arrivai al locale, erano già intervenuti i vigili che stavano elevando la multa. Non ho mai negato di aver discusso con l’addetto Hera per il suo atteggiamento polemico, ma pronunciai esclusivamente un’imprecazione, non certo una minaccia di morte. Alla fine, infatti, con la multa già elevata, mi scusai con il vigile per il tono un po’ nervoso e me ne tornai a casa. I pugni alla macchina e gli altri episodi, veri o presunti che siano, non sono certo imputabili al sottoscritto, come si è ampiamente chiarito nel corso del processo e, infatti, per questo capo d’imputazione, sono stato assolto”.
Cosa accadde invece con i vigili al chiosco di piazza Comandini?
“Durante un normale controllo la polizia locale ci contestò di aver creato attorno al locale una sorta di american bar abusivo. In pratica, per loro non era legittima la possibilità di fare mescita, ovvero di vendere le bevande, al di fuori del chiosco. Io domandai, per altro con toni del tutto composti, il motivo di quella decisione, ma muovendo obiezioni non sul controllo in sé, bensì sull’oggetto del controllo che ritenevo non giusto”.
Dunque, nessuna minaccia?
“Da parte mia certamente no, come per altro hanno confermato anche i diretti interessati. Durante l’udienza, il pubblico ministero mi chiese di un episodio specifico, ovvero se sapessi qualcosa in relazione ad una frase con presunti toni minacciosi che Rocco Patamia, tramite l’architetto Enrico Ghiselli, avrebbe rivolto all’indirizzo del funzionario amministrativo del Comune Riccardo Benzi. Risposi come sempre raccontando la verità, cioè che io, pur non potendo escludere il fatto, quella frase non l’avevo mai sentita. Insomma, alla fine, nonostante le tante ricostruzioni fantasiose, io non ho mai minacciato nessuno”.
Di lei si diceva che fosse solito girare per Cesenatico con una pistola d’oro…
“Non è la più grossa che ho sentito sul mio conto, ma resta comunque una colossale scemenza. Non ho mai avuto un’arma in vita mia e, chi mi conosce, sa che certe cose non appartengono al mio mondo. Se in passato ho avuto qualche problema con la giustizia è stato solo di natura fiscale…”.
Ovvero?
“Ovvero, nel 2013, all’interno della mia società, la Guardia di Finanza di Cesenatico mi contestò di aver illecitamente percepito un compenso. Patteggiai una condanna ad 8 mesi, pena sospesa, per appropriazione indebita, ma fu una leggerezza di natura fiscale perché quei soldi erano miei, solo che avrei dovuto ratificare l’operazione attraverso il dispositivo dell’assemblea straordinaria. Presi atto, pagai e tornai a lavorare senza problemi”.
Torniamo ai capi d’accusa che le hanno contestato: lei ebbe qualche problema con i dipendenti, tanto che al processo si è parlato anche di ‘caporalato’…
“Gestivamo una quarantina di dipendenti e non ho mai negato di aver avuto atteggiamenti poco professionali con 2-3 di loro. Ci tengo a precisare, però, che quell’estate per me non fu semplice: lavoravo come un mulo, non venivo pagato e mi diagnosticarono pure un grave problema di salute dal quale, per fortuna, oggi sono guarito. Detto questo, ammetto che, su quasi una quarantina di dipendenti, con 2-3 di loro ebbi dei comportamenti sbagliati. Di fronte alle loro lacune lavorative, oggettive ed incontestabili, invece di agire con professionalità, inviando lettere di richiamo, in alcune occasioni ho pronunciato frasi ingiuriose commettendo l’errore di ‘personalizzare’ i dissidi. Oggi lo posso dire senza problemi: di molte di quelle frasi non vado fiero. In ogni caso, l’accusa di ‘caporalato’ mi è sembrata clamorosamente esagerata, poiché nessun dipendente è stato sfruttato o schiavizzato. E, infatti, anche in questo caso, non ho ricevuto alcuna querela di parte. Pertanto, confido che in appello venga fornita la giusta valutazione di tali episodi”.
All’inizio – nell’ordinanza di custodia cautelare a suo carico, trasformata poi dal Gip in semplice obbligo di dimora – si faceva riferimento a suoi atteggiamenti violenti nei confronti in particolare di un dipendente…
“Fatti ampiamente ridimensionati. Non a caso, l’iniziale richiesta del piemme fu la misura degli arresti domiciliari, non accolta dal gip che applicò solo l’obbligo di dimora nel comune di Cesenatico. E comunque io non sono mai stato violento con nessuno”.
Nel processo, però, si è parlato di ‘minacce verbali’ come quando ad un dipendente di origini brasiliane, secondo l’accusa, lei avrebbe detto ‘se fai un’altra cosa del genere, ti sparo in testa’…
“Peccato che, durante l’udienza, la persona che sarebbe stata bersaglio di questa minaccia, che tra l’altro non è brasiliana ma di origine italiana, abbia risposto al giudice negando di essere mai stato minacciato da me. Per altro, ci tengo a ricordare che questo dipendente, come altri, era ospitato in un alloggio decoroso pagato regolarmente dalla società e che tutti questi lavoratori avevano con loro i documenti. Dunque, qualcuno mi dovrebbe spiegare in che modo si sarebbe potuta reggere l’ipotesi di caporalato. Ripeto, riconosco che certi miei atteggiamenti ingiuriosi siano stati sbagliati e, se potessi tornare indietro, non li rifarei, ma da lì a sostenere che i nostri dipendenti fossero vessati con sfruttamento e minaccia ce ne passa…”.
Andiamo allora all’ultimo capo d’imputazione, quello più grave, l’estorsione perpetrata ai danni di Emanuele Pirani, proprietario del laboratorio ‘Dolce Industria” di Cervia…
“Quella storia nasce così: siamo a luglio 2018, un agente immobiliare di Cesenatico, davanti al Dolce Salato, mi dice che a Cervia ci sarebbe un laboratorio di pasticceria in vendita. Giro la richiesta a Francesco Patamia e nasce una trattativa con la proprietà. Ai primi incontri, pur già vistosamente debilitato dalla malattia, era presente anche Romano Pirani, padre di Emanuele. Alla fine, dopo una trattativa serena, la vendita si concretizza i primi di settembre”.
Il “Dolce Industria” di Cervia
Cosa prevedeva l’accordo economico?
“Come sempre una parte iniziale in contanti, che vengono consegnati direttamente nelle mani di Romano Pirani, e poi il resto dei pagamenti attraverso delle cambiali. In ogni caso, compilo io una parte di quegli effetti e, poiché non ho grande dimestichezza con quel titolo di credito, scoprirò poi di aver commesso delle imprecisioni, ovvero di aver invertito i dati del debitore con quelli del creditore. Secondo il titolare delle indagini, quell’errore sarebbe stato voluto, un’ipotesi alquanto bizzarra visto che il contratto, scoprirò poi, prevedeva che quelle cambiali non sarebbero servite a pagare la somma restante, ma come garanzia di quegli importi da versare. Per altro, successivamente, quelle stesse cambiali vennero modificate nuovamente e dunque il mio errore, alla resa dei conti, si rivelerà del tutto ininfluente ai fini di quella trattativa”.
Durante il Natale di quell’anno le viene contestata anche un’altra frase che, secondo l’accusa, poteva prefigurare il “metodo mafioso”…
“La frase incriminata, riportata agli inquirenti da Emanuele Pirani, venne pronunciata sotto Natale, in un periodo in cui la ‘Dolce Industria’ mostrava chiaramente già i primi segni di sofferenza economica. Una notte vengo chiamato nel laboratorio di Cervia perché, per l’ennesima volta, le briosche erano state bruciate. In quell’occasione, rivolgendomi al pasticcere e non a Emanuele Pirani, io pronuncio la fatidica frase: ‘E’ inutile che remate contro, tanto questa è gente di m…, se non vuole, non vi paga’. Quelle mie parole furono clamorosamente travisate da Pirani che le riporterà ai giudici in maniera del tutto distorta. Secondo lui, infatti, io avrei detto: ‘Andate a vedere su internet chi sono i Patamia’ e, dopo aver cliccato quel nome su google – secondo la ricostruzione dell’accusa – il Pirani si sarebbe spaventato. Quella frase io non l’ho mai detta ma, anche se fosse, non avrebbe avuto senso perché, come dirà lo stesso pubblico ministero, nel 2018 non c’era un solo elemento che potesse far ritenere che i Patamia fossero affiliati alle ndrine calabresi”.
Perché i dipendenti della “Dolce Industria” non venivano pagati?
“Per varie ragioni, ma la prima cosa da precisare è che, nell’accordo di acquisto, era stato previsto che Francesco Patamia, rilevando la società, si sarebbe accollato anche le due mensilità arretrate non pagate dai Pirani. Quindi, la società si ritrovò, di fatto, a dover far fronte ad un esborso sensibilmente più alto rispetto agli incassi. Per questo verranno pagati gli arretrati, ma non i nuovi stipendi, una situazione che creerà tensione all’interno degli stabilimenti malgrado i nostri continui richiami ad avere pazienza”.
A cosa era imputabile questa grave crisi di liquidità?
“A due ragioni sostanziali: la prima era che la ‘Dolce Industria’, munta dal debito pregresso, faticava terribilmente a trovare una sua sostenibilità economica. Avrebbero dovuto intervenire con iniezioni di liquidità, ma anche gli altri asset del gruppo, ovvero il ristorante Al Trinchetto e il Chioschetto, non riuscivano a generare utili; la seconda ragione è imputabile ai soldi sperperati da Francesco Patamia che ad un certo punto entra in una fase di confusione e smette di essere un amministratore affidabile”.
Ma, a quel punto, con tutti quegli stipendi non pagati, compreso il suo, lei non ha cominciato a sentire odore di bruciato?
“Certo, ma nella mia testa c’era sempre quel milione di euro depositato che, sulla carta, rappresentava una sorta di garanzia per tutti. E poi, ad un certo punto, Francesco Patamia cominciò a parlare di un fantomatico mutuo che avrebbe garantito nuova liquidità e quindi nuovo ossigeno alla società”.
Ma le cose non andarono esattamente così…
“Sì, tutto andò a rotoli qualche mese dopo quando, per arginare una situazione diventata ormai insostenibile, decisi di salire a Milano per chiedere il pagamento degli stipendi arretrati dei lavoratori. Ne nacque un litigio furioso con Francesco Patamia e i rapporti, già molto tesi, si deteriorano definitivamente. Il 19 gennaio del 2019, faccio notare dopo solo dieci mesi, diedi le dimissioni dalla F.P. Group Srl”.
Dopo quella data, però, accadono altre cose…
“Cose, ci tengo a precisarlo, di cui verrò a conoscenza solo in un secondo momento leggendo gli atti. Nel 2020, in particolare, mi viene contestato il fatto che, dopo un incontro svoltosi a Milano tra tale Saverio Serra e Francesco e Rocco Patamia, un’intercettazione ambientale – durante una discussione incentrata sul futuro di ‘Dolce Industria’ – registrerà questa frase: ‘Lo facciamo chiamare da Alessandro (omettendo il cognome, ndr) perché con lui ha un buon rapporto e magari gli facciamo capire che…’.. Io quella telefonata, come si evince da tutti i tabulati, non la ricevo e non lo faccio”.
Saverio Serra
Sempre in quell’anno accade un altro fatto che, purtroppo per lei, si rivelerà decisivo nella sua sentenza di condanna: vuole raccontarlo?
“Rocco Patamia veniva spesso con la famiglia a Cesenatico e, poiché tra di noi il rispetto non era mai venuto meno, quando era in città era solito venirmi a salutare al Dolce Salato che, nel frattempo, avevo rilevato. In una di quelle occasioni, Rocco mi chiese di chiamare Emanuele Pirani e di farlo venire a Cesenatico per discutere del ‘Dolce Industria’. Io, in maniera ingenua, lo chiamai e, alla fine, si ritrovarono nel mio locale. Con loro c’era anche tale Saverio Serra che io non conoscevo ma che, come emergerà dagli atti del processo, era legato alla ’Ndrangheta calabrese. Poiché, in quel momento, nel bar c’era tanta gente, consigliai a tutti di spostarci nel retro. Durante quell’incontro, a cui io partecipai distrattamente come semplice spettatore, Emanuele Pirani disse che Rocco Patamia lo mise di fronte ad un bivio: ‘Poiché la società adesso vale 250mila euro o la dai a lui (Saverio Serra, ndr) oppure – lo intimò – mi restituisci i soldi che ti ho dato e te la riprendi’. Come dirà in aula lo stesso Pirani, io durante quell’incontro non aprirò mai bocca”.
Eppure, per colpa di quel fatto, lei finirà nei guai…
“Sì perché, da quel momento, partono i contatti tra i commercialisti di Pirani e di Saverio Serra e, dopo sei mesi di trattative, avviene la cessione dell’azienda. Ribadisco che, in quel momento, io sono fuori dalla F.P. Group e quindi, solo successivamente, verrò a sapere che quell’accordo non fu mai formalizzato e che il Serra non diede a Pirani quanto promesso. Nonostante questo, secondo il piemme, quell’incontro servì a sfiancare le difese del povero Pirani, prefigurando il reato di estorsione. Ed io, solo per il fatto di aver convocato Pirani a quell’incontro, che in realtà sarebbe avvenuto anche senza il sottoscritto, sono finito nell’inchiesta come complice di estorsione aggravata dal metodo mafioso e condannato a sei anni e 8 mesi”.
E lei come si discolpa oggi da queste accuse?
“Non sono io a discolparmi, ma paradossalmente è lo stesso Emanuele Pirani a scagionarmi da ogni responsabilità penale. Quando durante il processo gli viene fatta questa domanda: ‘Ma lei con Alessandro Di Maina ha mai parlato di cessione della sua azienda’?, lui risponde ‘Assolutamente no’. E quando gli viene chiesto: ‘Secondo lei Alessandro Di Maina ha tratto qualche profitto dalla cessione della sua azienda?’, lo stesso Pirani risponde sempre ‘no’”.
Ma lei questo Saverio Serra davvero non lo conosceva?
“In quel momento per me era un perfetto sconosciuto. Sono venuto a conoscenza dei vari reati che gli sono stati contestati solo durante il processo”.
E di Francesco Patamia, invece, che idea conserva oggi?
“Quella di un giovane imprenditore che aveva un’idea che poteva funzionare ma che, ad un certo punto, prende una brutta china che, di fatto, porta alla rovina prima l’intero progetto e poi lui. Detto questo, con il senno di poi, io sono convinto che lui non sia un mafioso”.
Di Emanuele Pirani, ovvero l’imprenditore che ha denunciato l’estorsione, cosa pensa?
“Con lui ho sempre avuto un buon rapporto e questa domanda mi consente anche di chiarire un punto importante di questa vicenda. Quando, dopo un paio d’anni, Pirani sporge denuncia per estorsione, a me nella querela non mi cita neppure. Ecco, uno dei paradossi di questa condanna è proprio questo: io mi becco sei anni e 8 mesi nonostante nessuno, in questa vicenda, abbia ritenuto di dover presentare nei miei confronti una denuncia di parte. Tutti i test ascoltati dichiarano, in più occasioni, che io sono estraneo ai fatti penalmente rilevanti di questa vicenda. Per tutti non c’entro nulla, fuorché per il giudice…”.
Facciamo un passo indietro: in che modo lei si ritrova proprietario del Dolce Salato?
“Io, visto che i ritardi si erano accumulati, dovevo ancora avere 28.500 euro di stipendi arretrati mentre la mia compagna Giulia, come cassiera del Dolce Salato, doveva averne 6-7mila. A quel punto accade un fatto: a Francesco Patamia viene notificato un’ordinanza di sfratto esecutivo perché non aveva pagato 16.500 euro di affitto alle proprietarie delle mura. Inoltre aveva una forte esposizione debitoria nei confronti dei fornitori. E così, con l’idea di rientrare dei miei soldi, un bel giorno gli dico: ‘il bar lo prendo io’. Stipuliamo l’atto e fissiamo il prezzo: 375mila euro, la stessa somma che Patamia avrebbe dovuto pagare a Morris Giovanardi. Mi accollo gli affitti non pagati, tutti gli stipendi del mese precedente, 45mila euro di debito con il fornitore del caffè e 140mila euro dovuti al fornitore di materie prime. Da quel momento il locale cambia strada: riesce a far fronte a tutti i debiti, anche se ogni giorno c’è qualcuno che reclama soldi, e comincia a pagare tutti gli stipendi con la massima puntualità. E, grazie anche ad un mutuo, sarei certamente riuscito ad onorare fino in fondo l’accordo se, ad un certo punto, quando mancavano gli ultimi 80mila euro per finire di pagare il Dolce Salato, non mi avessero chiuso l’attività”.
Come giudica quel provvedimento di chiusura firmato dal Comune di Cesenatico?
“Ovviamente ritengo si sia trattato di un’ingiustizia e, soprattutto, di una scelta non in linea con il dispositivo della Prefettura che, nella sua interdittiva antimafia, dice testualmente: ‘Non si può escludere che vi sia una componente mafiosa ma, nello stesso tempo, non si può neanche affermarlo oltre ogni ragionevole dubbio’. Per cui forse sì o forse no. Se la Prefettura fosse stata certa di quelle accuse avrebbe potuto, di fatto, far gestire il locale ad interim da un commissario. Non fa quella scelta, ma si limita a dare un’informativa. Il Comune prende la palla al balzo e decide di chiudere il Dolce Salato, facendo perdere il lavoro a nove persone, mettendo a rischio fallimento la mia compagna, formalmente intestataria del locale, visto che avevamo delle scadenze da onorare, e privando le proprietarie dei muri del loro affitto mensile che noi pagavamo invece con regolarità”.
Ad un certo punto, sul finire dell’estate 2019, Francesco Patamia decide di prendere in gestione anche l’Hotel Esperia per la stagione successiva…
“Quella trattativa la feci io. Riuscii a ridurre la richiesta di affitto da 120mila a 100mila euro, con condizioni di pagamento piuttosto vantaggiose. La famiglia proprietaria dell’albergo, infatti, quell’anno si sarebbe trasferita in Brasile e dunque aveva come unica necessità quella di ricevere una cambiale al mese. Sulla carta, dunque, un’operazione piuttosto comoda e sostenibile. Peccato che Francesco Patamia cambiò le condizioni, dicendo che avrebbe pagato con un’unica cambiale ad ottobre. Quella scelta fu l’inizio della fine perché, dopo l’estate, quei centomila euro non vennero più fuori…”.
L’anno dopo, nel 2020, lei ricevette una visita inattesa…
“Sì, venni interrogato dagli uomini della DIA di Milano che, per qualche giorno, guarda caso, avevano soggiornato proprio all’hotel Esperia. Mi diedero appuntamento all’hotel Devon di Ponente dove, per la prima volta, mi chiesero informazioni sugli affari dei Patamia. Dissi ovviamente tutto ciò che sapevo e sono le stesse cose che ho ribadito al pubblico ministero nel corso del mio interrogatorio anni dopo e che ho confermato durante il processo per ribadire la mia totale estraneità ai fatti”.
Al di là del processo cosa le ha dato più fastidio in questa vicenda?
“L’atteggiamento di qualche giornale, uno in particolare, che ha raccontato questa storia in maniera troppo faziosa ed approssimativa, forse per dare supporto e credibilità a chi, in questo processo, ci ha visto un’occasione per fare un po’ di propaganda. Sul mio conto ho letto delle vere e proprie bugie, come quella secondo cui io avrei gestito in passato delle imprese di pulizia di proprietà della criminalità organizzata. Un vera fandonia che, però, non credo sia stata scritta a caso…”.
Come sopporta gli sguardi indagatori della gente?
“A dire il vero con molta serenità perché so quello che ho fatto e dunque non ho nulla di cui vergognarmi. Molte notizie che sono girate sul mio conto in questi anni a Cesenatico sono destituite di ogni fondamento, come quella secondo cui io avrei trascorso un certo periodo nelle patrie galere. Niente di più falso visto che io, al di là dell’obbligo di dimora durato 9 mesi, sono sempre rimasto un cittadino libero. O come altre presunte minacce che, secondo la solita fantasiosa anedottistica cittadina, avrei rivolto ad alcuni personaggi di Cesenatico, circostanza che ho già avuto modo di smentire in maniera categorica perché certe azioni non appartengono alla mia cultura e sono molto distanti dal mio modo di essere e di pensare”.
Le lo sa che, a Cesenatico, molte persone hanno paura di lei?
“Immagino vista la ricostruzione fantasiosa di qualche giornale, ma di solito la gente ha paura di ciò che non conosce e preferisce formarsi un’opinione in base al chiacchiericcio, a ciò che sente in giro, anziché porsi qualche domanda. Per fortuna esiste anche un sacco di gente che mi vuole bene”.
Come giudica i sei anni e 8 mesi di condanna?
“La giudico una pena troppo alta e sicuramente non congrua alle mie responsabilità che, lo ripeto, sono circoscritte unicamente a qualche atteggiamento sbagliato nei confronti di un paio di dipendenti. Ma abbiamo un appello da affrontare e, come dice il mio avvocato, ci sono tanti motivi per essere ottimisti. In ogni caso, già il primo processo ha chiarito un aspetto per me molto importante, ovvero che – come ha scritto lo stesso pubblico ministero – ‘Alessandro Di Maina non può essere considerato un appartenente alla Ndrangheta e non ha mai avuto rapporti con altre organizzazioni di criminalità organizzata’”.
E se venisse assolto in appello?
“Sarei ovviamente felice ma, nello stesso tempo, una domanda non mi darebbe pace: a quel punto, anche con una sentenza di assoluzione in tasca, chi mi restituirebbe la serenità perduta in questi anni? E le decine di migliaia di euro spesi in avvocati? E i soldi e gli orologi sequestrati a scopo preventivo? Le accuse nei miei confronti sono state molto gravi e dunque, al posto mio, un’altra persona più debole avrebbe anche potuto mettersi una corda al collo. Resto convinto della mia innocenza perché io quel reato non l’ho commesso. Auspico di essere assolto e sono convinto che in appello le pene si ridimensioneranno di parecchio per tutti perché qui la mafia, almeno per ciò che mi riguarda, ce l’hanno voluta mettere dentro per forza”.
In che senso?
“Cito un episodio per spiegarmi meglio: a fine 2018, al laboratorio di ‘Dolce Industria’, assieme a Francesco Patamia, si presentò tale Giuseppe Maiolo che ci viene presentato come ‘il ragioniere’, ovvero la persona incaricata di fare il giro degli incassi. Scoprirò successivamente che questa persona è sposata con una Piromalli. Un giorno, negli uffici, si presenta con quattro lattine d’olio da 5 litri e mi propone di acquistarlo. Ne compro due e mi fa una ricevuta da 68 euro. Anni dopo, quando venni interrogato, un inquirente mi chiese: ‘ma lei non si era accorto che, sull’etichetta della lattina, c’era il nome dei Piromalli?’. Io ovviamente gli rispondo che non ci avevo fatto caso e che, a quei tempi, non sapevo neppure chi fossero i Piromalli. Questo per dire che, a volte, per sostenere un determinato impianto di accuse, è necessario creare anche il giusto contesto. Ecco, io ho avuto la sensazione che tanti episodi che ho sempre percepito come insignificanti siano stati strumentalizzati per costruire ad arte una narrazione suggestiva che descrivesse intrecci e collusioni di cui io non mi sono mai accorto”.
Alessandro, perché dovremmo crederle?
“Per una ragione molto semplice: se Francesco Patamia fosse stato davvero un grande boss della ’Ndrangheta, ma le pare che sarebbe finito in galera per 240mila euro non versati ad Emanuele Pirani? Cioè, la più grande organizzazione criminale del mondo, che quella cifra con lo spaccio di cocaina la guadagna in poche ore, avrebbe condannato un suo esponente di spicco a dieci anni di carcere perché non poteva permettersi di pagare i 39mila euro di stipendi arretrati ai suoi dipendenti? E ancora, se i locali dovevano servire a riciclare i milioni della malavita perché farseli chiudere dopo pochi mesi e in quel modo? Secondo voi la ’Ndrangheta prima apre i bar per ‘ripulire’ i soldi sporchi e poi fallisce come l’ultimo dei miserabili? Qui non si tratta di credermi oppure no. Qui si tratta di seguire la logica. E la logica dice che se, anziché in Romagna fossimo stati stati a Cosenza, dove i procedimenti per mafia sono una cosa ben più seria, questo processo probabilmente non sarebbe neppure cominciato”.
Tratto dalla pagina
Facebook di Rocco Patamia